Storie di uomini e di castagni

Storie di uomini e di castagni

Non c’è un albero a cui le popolazioni del Monte Amiata debbano di più che non sia l’albero del castagno. Diventa perfino difficile riuscire a immaginare un racconto in poche righe del rapporto con questa pianta maestosa, longeva e soprattutto tosta come la gente di montagna.

L’albero del pane lo chiamavano e mai nome fu più azzeccato perché là dove fare la farina di grano in tempi che sembrano lontanissimi (e che non lo sono affatto) non era facile e se ne produceva molto poca, ecco che l’unico “pane” da mettere sotto i denti era il Pan di legno.

La castagna è un frutto che, gustato a caldarrosta, regala un sapore inconfondibile che subito riconduce la mente al bosco e alla montagna, ma nel passato la castagna arrostita al calore della brace e mangiata cotta così com’era non rappresentava che un breve piacere stagionale mentre all’autunno seguiva il rigido inverno. Era invece dalla farina di castagne che si traeva il sostentamento per tutto l’anno.

Poiché il castagno era una pianta tanto importante per le popolazioni della montagna, ecco che già in epoca medievale si ritrovano leggi e norme statutarie che definivano le regole necessarie a determinare il rapporto tra gli uomini e i boschi.

Le castagne sieno et esser si intendino bandite dalla festa di Sant’Angelo del mese di settembre (il 29) sino alla festa di San Luca (18 ottobre), nel qual tempo nissuno possa etiamdio le sue cogliere, alla pena di soldi dieci per ciascuno e ciascuna volta. Sia niente di meno lecito a ciascuno che havesse castagne in vie pubbliche […] poterle corre senza pena, e questo medesimo di chi havesse castagne in campi lavorati. E le castagne altrui nessuno d’alcun tempo colga alla pena di soldi quaranta per ciascuno e ciascuna volta. E li minori di dodici anni sieno puniti in soldi dieci, et in ciascuno dei detti casi si emendi il danno.[1]

Così nello Statuto del 1434 del Comune di Abbadia San Salvatore si stabiliva (per legge) il periodo di raccolta delle castagne ed era solo una delle molte norme che regolavano, tra gli altri, taglio e pulizia del bosco, pascolo degli animali nei castagneti delle varie stagioni, oltre ad istituire le salatissime pene pecuniarie per contravvenzioni e furti.

Eppure, di castagno, il cui legno è solido e duraturo, erano fatte costruzioni, palificazioni, botti, tini e bigonci e sin dalle epoche antiche non era facile riuscire a trovare la corretta relazione tra le esigenze di tutela del bosco e quelle di un popolo che all’uso del legno non aveva alternative.

È il caso che occorse ad Arcidosso, quando nel 1422, dopo che la Repubblica di Siena aveva vietato il taglio del castagno a tutela della risorsa alimentare che esso rappresentava, gli uomini del Comune si rivolsero ai Priori di Siena per chiedere che gli abitanti potessero tagliare il bosco “per bisogni loro d’aconciare case, fare tavole o doghe da bocti[2] e chiesero che il limite rimanesse per il solo taglio finalizzato a realizzare carbone. Tutto ciò non aveva alternativa, come ben spiegarono i rappresentanti comunali ai Priori senesi “…et viene a dire che mai più casa si facci in quella terra et quelle che avessero mancamento non si possino raconciare et ruinino stando ferma essa provisione”.   

Dall’epoca moderna sino alla Seconda guerra mondiale i seccatoi (o metati) fiorirono nei boschi divenendo luogo di socializzazione e vero cuore pulsante della comunità che attorno alla fiamma placida che alimentava i bracieri ed essiccava le castagne si riuniva e si tramandava storie, fiabe, leggende e saperi antichi. In molte parti della montagna i vasti boschi venivano governati con la mezzadria, sistema che in epoca contemporanea lasciò progressivamente il posto alla piccola proprietà.

La castagna resterà il prodotto agricolo principale per tutto il medioevo e per tutta l’epoca moderna. Ce lo dimostrano i dati sui raccolti del passato. Ad esempio, nel 1676 ad Arcidosso venivano prodotte 800 moggia di farina di castagne a fronte di 350 moggia di grano. Ad Abbadia ancora di più, a fronte di 1000 moggia di farina di castagne, si producevano 400 moggia di grano.[3]


Le castagne venivano essiccate, sbucciate e ripulite con procedure che si ripetevano identiche di anno in anno, di generazione in generazione, dando vita a movimenti ritmici simili ad una danza e venivano poi portate al mulino per farne farina.

L’alimento principale era la polenta di castagne che nutriva uomini, donne e bambini per tutto l’anno, ma non mancavano anche i dolci come il castagnaccio.


[1] Ascheri M., Mancuso F., Abbadia San Salvatore, una comunità autonoma nella Repubblica di Siena, Il Leccio, Siena 1994

[2] Redon O., Testimonianze medioevali per la storia dei comuni del Monte Amiata, Viella, Roma 1989

[3] Cortonesi A., Il Medioevo degli alberi. Piante e paesaggi d’Italia (Secoli XI-XV), Carocci, Roma 2022