Historytelling: raccontare la storia in modo nuovo

Historytelling: raccontare la storia in modo nuovo

Quando nel 1973 comparve nel panorama internazionale un testo straordinariamente innovativo come Metahistory di Hayden White, i contenuti che per la prima volta proponeva suonarono ai più come una sorta di blasfemia, una pericolosa barbarie da allontanare e ridicolizzare poiché il rischio era quello di una diminuzione del valore per così dire “alto” della disciplina della storia. Ciò che in effetti White proponeva, rivoluzionario lo era davvero. Sebbene il testo sia di per sé anche un sistema molto complesso di analisi del lavoro della fase divulgativa dello storico, alcuni concetti fondamentali sono espressione anticipatrice di un’esigenza che si è poi incredibilmente accentuata con lo sviluppo del digitale e delle nuove tecnologie di comunicazione.

Per White il lavoro storico è “una struttura verbale nella forma di un discorso narrativo in prosa che pretende di essere un modello, o un’icona, di strutture e processi passati nell’interesse di spiegare ciò che erano rappresentandoli“.[1]

White considera positivo l’utilizzo del racconto come forma di divulgazione storica poiché, come nota Cinzia Del Maso:

[…] raccontando vicende private del passato si possono far emergere quelle pieghe della storia, quello spirito dei tempi che le narrazioni corali non coglieranno mai. […] Con la narrazione possiamo far rivivere il passato nel mondo di oggi, perché solo la narrazione sa ricreare vicende capaci di far sentire a tutti noi il contatto diretto con la vita vera di centinaia o migliaia di anni fa, di farci realmente viaggiare nel tempo.[2]

Ovviamente quando si fa narrazione storica, a prescindere dal mezzo (o meglio dire media) che si scelga di utilizzare, i canoni da rispettare sono completamente diversi rispetto a quelli di solito utilizzati nell’arte del racconto intesa sic et simpliciter. La narrazione storica è incanalata lungo binari ben precisi che sono primariamente e prioritariamente subordinati alla disciplina accademica e alla ricerca storica tradizionale.

Lo storytelling della storia, o come viene definito da qualche tempo appunto l’Historytelling, è la fusione tra la disciplina della ricerca storica e della comunicazione dove la seconda è necessariamente subordinata alla prima, pena la non credibilità del progetto che si intende realizzare. La costruzione di una struttura narrativa per una migliore divulgazione degli studi storici non può prescindere dal rigore scientifico e dalla ricerca sviluppata seguendo tecniche tradizionali, che si avvalgono di una lunga e complessa ricerca e analisi delle fonti (edite o inedite) e di una filologia che deve essere presupposto di qualsiasi forma di narrazione.

L’esigenza di raccontare la Storia oggi

White sosteneva che ogni modo di trasmettere le conoscenze storiche è, in fin dei conti, una “narrazione” che assume forme diverse a seconda della tipologia che si sceglie di adottare. Quello che però si è notevolmente accentuato negli ultimi anni, sia da parte di molti storici, sia da parte delle diverse tipologie di pubblico, è l’esigenza di trovare nuovi canali e nuovi modi per raccontare, per trasmettere la Storia (quella famosa con la S maiuscola), ma anche la microstoria, che poi, se la si volesse vedere come se fossimo dei biologi, è l’insieme di tutte quelle cellule che compongono un organismo più grande (non puoi capire come è fatto “l’animale Storia” se ignori le sue cellule).

La rivoluzione tecnologica e digitale

La Storia, quindi, per moltissimo tempo, è stata raccontata utilizzando due soli mezzi: la trasmissione orale e il testo scritto. Nessuno può biasimare gli storici del passato per non aver usato YouTube o Instagram (anche se secondo me oggi il canale di Marc Bloch farebbe i numeri di MrBeast) semplicemente perché potevano avvalersi soltanto di libri e conferenze (o lezioni, seminari, sproloqui in birreria su Federico II di Svevia… fate voi, il concetto è quello). Oggi, la presenza di una comunicazione multicanale ha dato origine ai termini di “transmedialità” e “crossmedialità” che in comunicazione sono ormai concetti addirittura vecchi, ma che per la storia faticano ancora ad affermarsi appieno, quando invece ogni tentativo, anche il più maldestro, riscuote sempre un discreto successo. Proprio perché per la storia non c’è soltanto un grandissimo interesse da parte di un pubblico molto più vasto di quanto si sia portati a pensare, ma ce n’è proprio bisogno. Dunque non si vede motivo per cui oggi uno storico che ha nella trasmissione dei propri studi, delle proprie competenze e conoscenze uno dei suoi doveri deontologici (perdonate il termine ma non sapevo come esprimerlo meglio) non dovrebbe essere anche un buon comunicatore.

Ecco allora che si apre tutta la questione di come comunicare la storia e (cosa che mi interessa parecchio) come raccontarla. Ma magari di questo ne parliamo la prossima volta…


[1] Hayden White, Metahistory, The historical imagination in 19th-Century Europe,  Baltimora (Usa), Johns Hopkins University Press, 1973, p.2

[2] Cinzia Del Maso (a cura di), Racconti da museo, Storytelling d’autore per il museo 4.0, Bari, Edipuglia, 2018, p. 17