La Bibbia amiatina e il suo mistero
È uno dei testi più importanti dell’alto medioevo. La Bibbia Amiatina (o Codex Amiatinus) con la sua imponente mole e le meravigliose miniature rappresenta uno dei patrimoni librari più belli e significativi di sempre. E deve il suo nome proprio al monastero di San Salvatore sul Monte Amiata.
Bisogna provare ad immaginarsela la Gran Bretagna del VII secolo, o la Britannia per utilizzare l’antico nome romano. Verdi colline, ampie foreste, villaggi lontani chilometri l’uno dall’altro. A poca distanza da quel vallo che l’imperatore Adriano aveva fatto costruire in passato per tenere al di là i barbari provenienti dal nord, un monastero benedettino dell’allora regno di Northumbria è in pieno fermento.
Ceolfrid, abate dei monasteri gemelli di Wearmouth e Jarrow ha intrapreso una sfida audace: quella di riuscire a riprodurre integralmente il testo della Bibbia nella sua versione latina redatta da San Girolamo, in tre copie. L’intero Scriptorium lavora da anni alla realizzazione di quest’opera grandiosa e per riuscirvi il monastero ha dovuto acquistare nuove terre per far pascolare tutto il bestiame necessario a realizzare la cartapecora su cui scrivere.
Quando però l’opera è completa, agli inizi dell’VIII secolo, il risultato è un codice miniato di rara bellezza, vergato in onciale e con illustrazioni e miniature che lo rendono straordinario. 1030 fogli di imponenti dimensioni, 50 centimetri di altezza, 35 centimetri in larghezza, il tutto per 50 chilogrammi di peso. Straordinario, appunto.
Ma un’opera così non può restare solo sull’isola. Ceolfrid ne è talmente orgoglioso che decide di portarne, lui in persona, una copia in dono al Papa, che in quel tempo è Gregorio II. Parte così una spedizione per giungere fino a Roma.
Ora, nell’VIII secolo la tratta Britannia-Italia non era esattamente un paio d’ore e poco più d’aereo. La si faceva a piedi, o al più a dorso d’asino, circondati da mille pericoli, predoni, uomini d’arme e prepotenti d’ogni sorta che non si facevano scrupoli neanche di fronte agli uomini di fede e, quando inizia questa avventura, forse la più importante della sua vita, l’abate Ceolfrid è già piuttosto avanti con gli anni.
Quella volta, infatti, Ceolfrid Roma non la vedrà. Il suo viaggio si ferma nei pressi di Langres, in Borgogna, dove muore nell’anno del signore 716. L’impresa però è troppo importante per essere abbandonata. Così, è nel nome di Ceolfrid e nel suo ricordo che i suoi confratelli scelgono di proseguire il cammino e di portare comunque a Roma il prezioso manoscritto.
Da questo momento, tuttavia, il Codice inizia ad essere avvolto da un alone di mistero. Nessuno sa il motivo, nessuno sa come sia successo, ma quella Bibbia tanto preziosa arriva al monastero di San Salvatore al Monte Amiata e vi rimane per secoli. Solo nel XV secolo, nei suoi Commentari, Papa Pio II (il Papa che diede vita alla cittadina di Pienza, per intenderci) ha modo di raccontarne l’ammirazione, riportando per primo alla luce l’esistenza del manoscritto.
Infine, nel 1631 la Bibbia viene rinvenuta dallo storico Ferdinando Ughelli assieme ad alcune reliquie contenute all’interno di casse custodite gelosamente nella cripta dell’Abbazia (ma Ughelli ne attribuisce erroneamente la realizzazione a Papa Gregorio Magno).
A far luce sul mistero di questa Bibbia sono due studiosi del XIX secolo: Giovanni Battista de Rossi e Fenton John Anthony Hort, i quali entrambi, più o meno nello stesso periodo, si rendono conto che c’è qualcosa che non quadra nella dedica di quella Bibbia. Una dedica che sembra appositamente realizzata per il Monastero di San Salvatore al Monte Amiata ma che si rivela in realtà una specie di falso dell’epoca. Alcune parti sono state abrase e sovrascritte. Il destinatario del dono adesso non è più il Papa, ma un certo Petrus Langobardorum (verosimilmente uno dei quattro abati di nome Pietro succedutisi alla guida di San Salvatore tra l’VIII e il XII secolo) e sotto il nome di un copista, un certo Servandus, si nasconde in realtà il nome di chi ha effettivamente realizzato l’opera: Ceolfrid, il vero padre di quel testo incredibile, tornato prepotentemente alla luce dalle ombre della storia per reclamare a gran voce i propri diritti d’autore.
Sulle motivazioni che hanno portato il testo di Ceolfrid sul Monte Amiata gli storici hanno per adesso potuto formulare soltanto ipotesi. Forse si è trattato di un dono all’Abbazia per la sua fondazione e si è quindi tentato di aumentarne il valore significativo alterandone la dedica o forse un tentativo disperato del Papa di mettere in salvo un testo tanto prezioso dalle incursioni saracene tra IX e X secolo. Probabilmente non lo sapremo mai.
Certo è però che per molti secoli l’abbazia di San Salvatore se ne è presa cura ed ha custodito il manoscritto nella propria biblioteca fino alla soppressione del 1782. Se delle tre copie che Ceolfrid aveva fatto realizzare ne resta integra solo una, se ancora oggi alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze possiamo ammirare La madre di tutte le Bibbie in tutto il suo splendore, il merito non può che essere dei monaci di San Salvatore che per tutti quegli anni hanno conservato tra le proprie più preziose reliquie la Bibbia Amiatina e il suo mistero.